L’indagine introspettiva e personale tessuta intimamente con il territorio in cui vive. Giacomo Infantino racconta la sua ricerca
Giacomo Infantino, attraverso molteplici pratiche, in particolare la fotografia, realizza operazioni sul paesaggio intese a creare nuove forme di letture interiori e personali sulla percezione dell’identità umana, con l’obiettivo di trasformarle in una narrazione partecipativa in grado di esternare alcuni aspetti della contemporaneità legati al senso dell’abitare.
L’artista avanzando una riflessione sulla relazione tra vita e morte, identità e cultura, mito e leggenda, restituisce un immaginario fittizio attraverso molteplici forme: fotografia, video, installazioni.
La sua mostra personale “Cerchio di perpetua occultazione” sarà visitabile a Villa Mirabello, situata all’interno dei giardini del Palazzo Estense a Varese. Lo abbiamo incontrato per conoscere come nascono i suoi progetti fotografici e per raccontarvi la sua personale ricerca artistica.
Come nascono i tuoi progetti fotografici, qual è il processo?
I miei progetti fotografici nascono solitamente dal processo video e di costruzione per immagini. La fotografia e il video sono medium che possono contaminarsi con qualsiasi cosa. Non c’è una sorta di limite, non che ce ne siano in generale, ma sono ben predisposti a molteplici ruoli.
Nel mio lavoro in particolare, questi media diventano un tassello fondamentale per svolgere una ricerca immaginaria che mi spinge costantemente a creare infinite possibilità di espedienti, pensieri e tecniche che mi conducono a nuovi quesiti formali ed estetici.
Nel mio lavoro di ricerca, ciò che ritorna con forte chiarezza, è l’indagine introspettiva e personale che ho tessuto intimamente con il territorio in cui vivo da sempre.
Attraverso l’immagine ho la possibilità di attivare nuove suggestioni dal paesaggio stesso che mi aiutano a ridefinirne gli spazi esteriori, e allo stesso tempo interiori degli individui che lo abitano.
Nella ricerca che svolgo c’è molta pratica spassionata, tante camminate notturne, silenzio e freddo gelido, ma anche scoperta, rivelazione e fallimento.
Quasi tutto il mio lavoro verte sulla ricerca di un paesaggio, fortemente onirico, caratterizzato da installazioni di luci nel territorio, da una oscurità che riesce ad emergere dalla mia vita per riversarsi in una visione più totalizzante e collettiva, nell’ardua ambizione di leggere alcuni aspetti del presente e di ciò che lo costituisce.
Quali sono le tue fonti di ispirazione?
Le mie principali fonti di ispirazione provengono principalmente dal cinema. Mi iscrissi al triennio di Nuove Tecnologie dell’Arte a Brera con l’intento di studiare regia e montaggio.
La visione di opere come quelle di Tarkowski, Bergman, Kubrick, Antonioni, Wenders e Wong Kar Wai, ma anche le contaminazioni e le produzioni video nell’ambito musicale come Björk, Arca, Thom Yorke e Mùm furono il contenitore di tutte le mie ispirazioni principali.
La fotografia fu il passo successivo. Alcuni tra i numerosi autori che influenzano il mio percorso sono sicuramente Todd Hido, Gregory Crewdson, Lise Sarfati, Jeff Wall, James Casebere, Paolo Ventura e moltissimi altri.
In particolare questi autori sono legati dal processo di creazione statica e meditata della scena, hanno spesso un’impronta cinematografica che gioca sul filo della realtà e della finzione. In questi autori ho trovato le prime suggestioni che hanno aperto la strada al mio lavoro.
Che cos’è per te l’identità?
L’identità, per definizione, è la concezione che un individuo ha di se stesso nell’individuale e nella società, ma credo anche sia molto di più.
L’identità può valicare il singolo e restituire un’immagine di un intero popolo, per esempio, attraverso i suoi costumi, i suoi riti e i suoi simboli.
In particolare, nella mia ricerca, l’identità diviene strumento di visione per indagare quegli aspetti più sensibili che caratterizzano il senso del vivere e abitare un luogo.
E come il mezzo fotografico può raccontarla?
La fotografia è un mezzo in grado di poter supportare o affiancare qualsiasi pratica artistica. Non si tratta esclusivamente di realizzare fotografie, ma piuttosto immagini. Esse hanno oggigiorno una duttilità incredibile e possono ibridarsi in modo multidisciplinare e trasversale.
Sulla base di questo pensiero posso affermare che, per quanto riguarda il mio percorso, la fotografia diventa un mezzo di ricerca e metodo, dove la ricerca di un’identità collettiva passa attraverso un viaggio personale a quello collettivo.
E’ una vera e propria relazione intima che si fonde con le proprie necessità, ma applicate ad un processo esecutivo che può variare e mutare con l’accumularsi della propria esperienza legata agli altri.
In questo senso, più che le possibilità narrative del mezzo fotografico, l’immagine che andiamo creando è influenzata dal contesto in cui viviamo e dal nostro retaggio.
Si può raccontare ciò che si vuole con la fotografia. E’ questa una delle sua grandi virtù. Nel mio caso, cerco di innescare rappresentazioni della contemporaneità attraverso i simboli che la identificano.
La mia pratica vuole rileggere, inteso come “raccogliere nuovamente”, quell’attenzione verso ciò che resta invisibile, ma che ci coinvolge tutti, quindi una sintesi di un’identità fluida e in continua evoluzione.