
Erica Gariboldi (Varese, 1994) è un’artista visiva che muove i primi passi nel panorama contemporaneo esponendo tra Torino, Milano, Venezia e Genova. La sua formazione accademica si è articolata tra le arti visive e le discipline umanistiche con particolare interesse per l’antropologia contemporanea, che nutre tanta della sua ricerca artistica.
Tramite videoarte, fotografia e pittura esplora gli spazi abbandonati della ritualità tradizionale come non-luoghi di incontro con l’Altro e i contemporanei mezzi di non-comunicazione come luoghi reali dell’isolamento narcisistico, riflettendo su tematiche quali la medicalizzazione del dolore e lo stigma del disturbo mentale, alla continua ricerca di spazi di soglia entro i quali alcuni valori del contemporaneo sistema dominante possano essere momentaneamente messi da parte, lasciando spazio a modalità alternative di conoscenza del mondo. Attualmente collabora con il centro d’arte partecipata Milano Mediterranea.
Espone, tra le altre, presso: Careof (Denoise, Milano, 2023), Galleria Ca’ Pesaro (Artefici del Nostro Tempo, Forte Marghera, VE), S.M. Di Castello (La Quinta Stagione, Genova, 2024), Isolart Gallery (Medusa, Firenze, 2024), Rossart Gallery (LightRoom, Zurigo, 2024), TRIP (Barriera Design District, Torino, 2024), Studio Dieci (Disobey, Vercelli, 2024); LevelUp (TorinoCreativa, Torino, 2025).



Raving death (2024)
Raving Death esplora la paralisi del dolore e della sua elaborazione nel contesto di una società altamente atomizzata e individualista, raccontando la necessità di sperimentare una violenza controllata – rituale – in risposta a una subita: non controllata e non controllabile.
Un brano musicale composto dalla fusione di stilemi e sonorità techno con una registrazione inedita di
lamentazione funebre intonata da una prioressa della Barbagia, accompagna, con la sua struttura circolare e il tipico andamento ripetitivo e ipnotico, la documentazione video di un rituale di chiusura celebrato mediante una sessione di brutal tattoo*.
La sessione è provocatoriamente accostata alla restituzione performativa di un ‘rituale’ contemporaneo falsamente trasformativo. L’opera intende tematizzare l’inesorabile condizione di isolamento dell’individuo contemporaneo, privato del potere aggregante delle forme di ritualità comunitaria perché orfano di comunità. Il riferimento alla skincare routine racconta il paradosso del rituale individualistico e la messa in scena ne denuncia la sterile ed estenuante ripetitività, in un contesto di profonda solitudine e immobilità.